Uno dei problemi che spesso il medico esperto di dolore cronico si trova a dover affrontare è la doppia diagnosi (ad esempio artrite reumatoide e sindrome fibromialgica). Giustamente ci si pone il problema se il doppio quadro clinico sia indipendente, oppure se il mal adattamento (o la predisposizione) alla malattia reumatoide o la presenza di algie articolari assiali/periferiche possano costituire il primum movens (causa prima) che fa scattare da un punto di vista clinico la comparsa della sindrome fibromialgica.
Molto spesso si trattano le malattie infiammatorie croniche o le malattie autoimmuni con ottimi risultati clinici grazie a farmaci, anche di recente acquisizione, in grado di controllare o indurre una bassa attività di malattia o addirittura una remissione clinica. Se prendiamo ad esempio il modello artrite reumatoide, il risultato clinico è misurato con un indice composito (il DAS 28) che comprende: le articolazioni tumefatte e dolenti; il giudizio globale di attività di malattia; il GH (o parametro della salute globale) che rappresenta l’autovalutazione del paziente dell’attività di malattia su una scala da 0 a 100, dove 100 significa attività massima; un parametro di laboratorio come la VES o la PCR. Una riduzione del punteggio DAS 28 pari a 0,6 rappresenta un moderato miglioramento; una riduzione maggiore di 1,2 rappresenta un significativo miglioramento; un punteggio di DAS 28 < 2,6 significa remissione clinica, mentre un punteggio tra 2.6 e 3.2 significa bassa attività di malattia. Il cut-off (valore soglia) di questo parametro di remissione clinica spesso viene raggiunto, ma una quota di pazienti continua a lamentarsi dei sintomi che modificano la loro qualità di vita. In effetti, misurando i sintomi riferiti alla qualità della vita (dolore muscoloscheletrico diffuso, stanchezza, disturbi del sonno, disturbo neurocognitivo e aspetti psicoaffettivi), la remissione clinica non è così evidente. Il paziente presenta spesso un dolore residuo, il che fa pensare possa soffrire di un dolore ancora legato alla presenza di un certo grado di attività di malattia infiammatoria, oppure è possibile che abbia sviluppato una concomitante sindrome fibromialgica. Infatti, nel 20% dei pazienti affetti da artrite reumatoide è presente una concomitante sindrome fibromialgica, della quale dobbiamo tenere conto in relazione al trattamento farmacologico legato alla presenza residuale di questi sintomi.
I meccanismi infiammatori e/o autoimmuni legati alla patologia di base possono indurre una sensibilizzazione periferica e centrale capace di determinare, nei soggetti predisposti, un quadro concomitante di sindrome fibromialgica. Non dimentichiamo che altri meccanismi, quali un comportamento mal adattativo verso la patologia di base oppure significative alterazioni di tipo psicoaffettivo (ansia, depressione), possono contribuire notevolmente alla persistenza di taluni sintomi.
Quando un paziente giunge alla nostra osservazione per un quadro di dolore cronico deve sempre essere valutato in tutti i suoi risvolti clinici. Il paziente potrebbe non sapere dell’eventuale correlazione tra il quadro clinico di malattia autoimmune e la presenza di fibromialgia, per cui potrebbe sfuggire ad una corretta valutazione del quadro clinico, oppure potrebbe manifestare un quadro di artrite all’esordio confusa per una manifestazione di fibromialgia. Infatti, attualmente assistiamo a un eccesso di diagnosi di fibromialgia: il paziente lamenta sintomi dolorosi articolari o muscolari e alcuni medici, inesperti o poco attenti, senza fare una corretta valutazione della diagnosi differenziale (percorso che, in presenza di sintomi comuni o simili, permette per esclusione di giungere ad una diagnosi, NdR), etichettano il paziente come fibromialgico o lo inviano allo specialista che si deve far carico della specifica valutazione clinica.
Un altro esempio molto comune è quello del paziente con sindrome fibromialgica che presenta positività per anticorpi antinucleo. Capita di visitare pazienti a cui è stata fatta da molti anni diagnosi di connettivite indifferenziata, oppure di oligoLES in terapia con plaquenil e cortisone a basso dosaggio, i quali però non hanno mai soddisfatto i criteri per un qualsiasi tipo di connettivite. La stessa cosa vale per alcuni sintomi come la sindrome sicca, le manifestazioni cutanee di natura allergica, i disturbi neurocognitivi, alcuni quadri di polientesopatia o di algie al rachide. Per cui attenzione a farsi seguire da specialisti che siano in grado di definire correttamente la diagnosi e attribuiscano agli esami di laboratorio il giusto valore.
A tutta evidenza, ci si può trovare di fronte ad un rebus diagnostico e molto del risultato clinico dipenderà dal corretto approccio diagnostico e dalla altrettanto fondamentale strategia terapeutica. Ricordiamo che il paziente è il miglior alleato del medico in fase di anamnesi, da condurre in un regime di attento ascolto e senza atteggiamenti pregiudizievoli. Il paziente va educato alla malattia, gli va spiegata la necessità di aderenza alla terapia e di gestione personalizzata del dosaggio dei farmaci (sempre sotto consiglio medico), senza mai sminuirlo o etichettarlo come malato immaginario o psichiatrico.
Il quadro clinico del paziente può mutare negli anni e alcune diagnosi possono richiedere più tempo, ma questa penso sia la bellezza e la difficoltà di una branca della medicina come la reumatologia che si occupa di una varietà di sindromi, a volte con una sintomatologia confondente.
Il mio consiglio, soprattutto in sede di prima visita, è raccogliere con accuratezza la storia clinica del paziente, valutando anche aspetti quali la resilienza (adattamento a disturbi post-traumatici da stress) e gli altri sintomi che il paziente riferisce; l’attenzione ai sintomi clinici e ai risultati di laboratorio ed imaging consente nella maggior parte dei casi di definire in maniera corretta la diagnosi o le diagnosi, in caso di più patologie concomitanti nel paziente. Questo lavoro permetterà di ragionare in maniera efficace sugli obiettivi terapeutici e sull’utilizzo appropriato delle strategie farmacologiche e non farmacologiche a nostra disposizione. Soprattutto, eviterà perdite di tempo sotto forma di un eccesso di valutazione empirica dei farmaci e di approcci non farmacologici utilizzati impropriamente non sapendo bene cosa fare; nulla infastidisce di più il medico (e danneggia di più il paziente), infatti, del prendere atto dei propri limiti nell’arte medica.
Piercarlo Sarzi Puttini
Presidente AISF ODV