La solitudine si paga in lacrime. E l’ho pagata anch’io. Ma se ho vissuto poi, se sono un uomo ormai, lo devo a lei, la donna che è…”.  Questa canzone di Lucio Battisti del 1969, intitolata “Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto”, poneva il problema della solitudine, nel caso specifico della mancanza di un amore, di una donna con cui condividere l’esistenza. L’amore di una persona rende tutto più accettabile, più degno di essere vissuto nella gioia e nel dolore. Ovviamente quella era “solo” una canzone ed il tema non era la fibromialgia ma la solitudine, che non ha tracce né confini né durata. In molti pazienti affetti da sindrome fibromialgica, oltre alla malattia esiste anche il problema di non essere compresi da chi sta vicino, sia esso la moglie, il marito, i figli, il datore di lavoro, i colleghi, gli amici o un personale sanitario impreparato. Molti dei nostri pazienti esprimono la difficoltà di vivere la vita nel dolore e nella fatica senza nessuno che li capisca.  Ecco perché in questa malattia è molto importante l’educazione dei caregiver, ossia di coloro che per affetto, scelta, parentela o lavoro accompagnano il paziente nei tortuosi sentieri della vita di tutti i giorni. La solitudine produce malattia, la malattia porta all’isolamento. L’isolamento forzato nelle malattie croniche o rare accentua il senso di solitudine e disagio, causando spesso gravi disturbi psichici e difficoltà relazionali.

I malati fibromialgici sono esposti pertanto al rischio di vivere una solitudine forzata, colpiti come sono da sintomi costanti nel tempo, a volte senza concrete prospettive di miglioramento. La severità della sindrome può essere provocata da fattori di rischio modificabili, quali: un’alimentazione non idonea, mancanza o carenza di attività fisica, una strategia terapeutica incongrua. Questi comportamenti spesso si accentuano nelle persone che vivono in solitudine, poiché prive di sostegno fisico e psicologico e di sollecitazioni verso una corretta igiene sanitaria e cura del proprio corpo. Quando la malattia è invalidante, la solitudine diventa un incubo ma anche un rifugio, per chi per primo non accetta la propria condizione e stenta ad integrarsi in un mondo di “persone normali”. Un sostegno può arrivare dalle associazioni di malati, che promuovono l’interazione fra pazienti affetti dalla stessa patologia e la creazione di momenti di discussione e di scambio reciproco in cui il malato condivide pensieri e sentimenti relativi alla propria malattia.  Il contesto associativo può essere una utile valvola di sfogo, per imparare ad accettare e gestire la propria condizione e rendere meno difficile la convivenza col mondo esterno.

La solitudine del malato cronico nasce però anche, se non soprattutto, dalla carenza di un efficace sostegno da parte del Sistema Sanitario Nazionale: i malati cronici sono lasciati soli con il loro dramma, lo stato depressivo in cui sovente cadono può inficiare la terapia ed influenzare negativamente il percorso della malattia. Nella solitudine, tuttavia, si può recuperare sé stessi: in una società che rifiuta la solitudine, infatti, possiamo imparare a godere di essa soffermandoci attentamente sui nostri bisogni e scoprendo le nostre reali vocazioni. Perciò non tutto nella solitudine è negativo.

Dobbiamo ricordarci che la sindrome fibromialgica deriva da un difficile percorso di vita: carenza d’amore nell’infanzia, traumi psicologici di difficile accettazione e soluzione, patologie concomitanti, disturbi della sfera affettiva. Avere al proprio fianco compagni di vita che capiscono la sofferenza e ci aiutano ad affrontarla al meglio rende la malattia più accettabile. Non dimentichiamoci mai del ruolo fondamentale che svolgono le persone a noi care nello sdoganare una sindrome non letale, ma spesso capace di far soffrire per tutta la vita. AISF e le altre associazioni di malati cronici devono essere a disposizione non solo di chi è affetto dalla malattia, ma anche di chi se ne prende carico nella quotidianità dell’esistenza.

Piercarlo Sarzi Puttini
Presidente AISF ODV