La fibromialgia (FM) determina un impatto negativo in molte attività di vita quotidiana dei pazienti, tra cui la capacità lavorativa. I dati fornitici dalla letteratura al riguardo sono numerosi; i risultati che ne emergono sono tuttavia assai variabili e discordanti in relazione ai diversi sistemi di protezione sociale e di tutele in ambito lavorativo applicate nei paesi dove tali studi sono stati condotti.

Uno studio epidemiologico condotto in Spagna, ad esempio, ha riscontrato che il 23% del campione analizzato fruiva di una pensione per invalidità permanente e l’11% era in malattia al momento dell’indagine; in uno studio analogo in pazienti australiani è emerso che il 35% del campione riceveva un supporto finanziario da parte dello stato per l’incapacità a svolgere attività lavorative.

In uno studio longitudinale condotto su un campione di 94 giovani donne americane e svedesi è stato riscontrato che, un anno dopo la diagnosi di FM, il tasso di occupazione era sceso dal 60% iniziale al 41%; la severità dei sintomi è risultata essere predittiva sulla perdita del lavoro.

È interessante notare che l’intensità del dolore soggettivo, il grado di astenia e, più in generale, le limitazioni nelle attività di vita quotidiana sono risultate minori nelle pazienti occupate rispetto a quelle inattive; il declino del loro stato di salute, quindi, appare rallentato rispetto alle pazienti disoccupate. È ragionevole dedurre che l’essere occupate in ambito lavorativo rappresenti un fattore protettivo dello stato di salute delle pazienti fibromialgiche. È stato dimostrato che le pazienti che riescono a mantenere la propria occupazione nonostante la malattia manifestano, rispetto a coloro che la perdono, un atteggiamento proattivo finalizzato ad adottare strategie di coping adattative non solo all’attività lavorativa ma, più in generale, alla gestione del proprio stato di salute.

Tuttavia, correlare l’incapacità lavorativa con la perdita del posto di lavoro è un approccio limitativo alla comprensione dell’impatto della malattia sulle performance dei pazienti nell’ambiente di lavoro.

Più recentemente, l’impatto della FM in ambito lavorativo è stato analizzato in termini di assenteismo (termine utilizzato per quantificare il numero di giornate di lavoro perse) e di presentismo (con cui ci si riferisce alla presenza sul luogo di lavoro nonostante uno stato di salute compromesso, con conseguente riduzione della produttività).

In uno studio condotto sulla popolazione italiana, Salaffi et al. hanno correlato i livelli di assenteismo e presentismo con la gravità della FM (definita lieve, moderata o severa in base alla somministrazione di questionari validati). Il numero di giornate lavorative perse nelle quattro settimane precedenti, così come la perdita di produttività (presentismo), risulta maggiore all’aumentare della gravità della malattia.

Un’associazione di pazienti ha somministrato online un questionario di indagine finalizzato ad individuare i fattori percepiti dai pazienti come facilitanti o ostacolanti la possibilità di continuare a svolgere la propria attività lavorativa. Dei 1.176 pazienti che hanno risposto al sondaggio, il 94,3% erano donne di età media 46,8 anni; il 20% era disoccupato, solo il 14% del campione non riportava particolari difficoltà a svolgere la propria occupazione. L’intensità del dolore soggettivo e la stanchezza sono risultate essere, rispettivamente per l’84% ed il 90% dei partecipanti, le principali cause di difficoltà nello svolgimento delle proprie mansioni.

Altri fattori ostacolanti allo svolgimento della propria attività sono stati identificati nei ritmi frenetici imposti dall’organizzazione e da fattori ambientali (es. il non rispetto delle regole ergonomiche delle postazioni di lavoro, la tipologia di attività che richiede posture fisse prolungate o movimenti ripetitivi con sollevamento/spostamento di carichi). Tali fattori sono comuni a molte attività e sono riconosciuti dai medici competenti come motivi validi, in molteplici patologie a carico dell’apparato muscoloscheletrico, per attuare misure correttive sull’ambiente di lavoro.

La distanza dal luogo di lavoro, la necessità di effettuare lunghi spostamenti e la rigidità degli orari, invece, sono problematiche più frequentemente riportate dai pazienti fibromialgici rispetto alle persone affette da altre patologie. Tra i principali “facilitatori” suggeriti dai pazienti vi sono la possibilità di fruire di orari flessibili, part-time e smart-working.

Un dato meritevole d’attenzione riguarda l’alta percentuale di coloro che hanno segnalato reazioni negative provenienti dall’ambiente di lavoro, rappresentate da isolamento, demansionamento fino ad aperta ostilità da parte dei colleghi (60,1%) o dei datori di lavoro (70,5%). Solo il 19,2% degli intervistati ha dichiarato che i colleghi conoscono la FM e ciò che tale malattia comporta, mentre una minoranza (il 46,1%) ha dichiarato di sentirsi creduta quando esprimeva le proprie difficoltà.

I dati della letteratura suggeriscono che il supporto psicologico e l’empatia da parte dei colleghi di lavoro rappresentano uno dei principali fattori a favore del mantenimento dell’attività lavorativa da parte dei pazienti fibromialgici.

CONCLUSIONI

La FM a tutt’oggi è una sindrome per la quale non sono disponibili biomarcatori specifici, la diagnosi si basa solo sulle caratteristiche cliniche e sulla sintomatologia riferita dai pazienti.

È questo uno dei principali motivi che determina la resistenza da parte dei colleghi e dei datori di lavoro a credere alle difficoltà riferite da pazienti affetti da una patologia “invisibile”, considerandole scuse per ottenere facilitazioni o limitazioni dello sforzo lavorativo.

Nella mia esperienza la personalità “premorbosa” dei pazienti, ossia le loro caratteristiche comportamentali e psicologiche antecedenti all’insorgenza della sintomatologia, è invece improntata al perfezionismo, all’efficientismo e ad un grande impegno nell’ambito familiare e lavorativo.

La stragrande maggioranza dei pazienti soffre per l’incapacità a rispondere a tutte le richieste che l’ambiente esterno (familiare e lavorativo) gli pone e gli ha sempre posto in passato, per le quali si sono sempre prodigati nel miglior modo possibile.

Nella società attuale l’efficientismo, la competizione e la concorrenza sono considerati “valori” desiderabili da parte della maggioranza delle istituzioni, pubbliche e private; la mentalità competitiva impedisce di essere spontanei, creativi ed empatici con gli altri.

Come scrive Federico Faggin nelle conclusioni di un suo libro, “mentre la competizione e la concorrenza dividono, la cooperazione unisce. Per cooperazione non intendo buonismo, ma una meritocrazia che riconosce il valore di chi si impegna, mettendo a disposizione di chi non riesce a stare al passo ciò che è necessario per essere parte attiva della società”.

Per questo motivo uno dei principali facilitatori a favore dei pazienti fibromialgici da predisporre negli ambienti di lavoro è la capacità, da parte delle organizzazioni aziendali e dei singoli preposti, di fare formazione sulla natura e la “realtà” della FM, in modo da creare un ambiente collaborativo ed empatico che aiuti i pazienti a mantenere non solo il proprio lavoro, ma soprattutto la propria autostima ed il proprio benessere psicologico.

Dr. Marco Cazzola
Referente medico Sezione AISF Insubria