Per la rubrica Fibrini si raccontano, vi presentiamo il racconto di Andrea Dugnani
Non ero mai stato abituato ad andare piano.
Essendo un ragazzo sensibile, acuto e turbolento, ho sempre dovuto scaricare le tensioni che si accumulavano dentro me tramite lo sport, o lasciandomi assorbire completamente da qualche attività. Amavo la pesistica, il calcio e la corsa, ed ero ossessionato dalla mia forma fisica tanto da sottopormi ad un’alimentazione curata e particolare.
Tutto sommato funzionava, ero felice e raggiungevo i miei obbiettivi, fino a quando qualcosa non ha iniziato ad incepparsi, e mi sono trovato improvvisamente a dover arrestare la mia corsa.
Era un dolore confuso e generalizzato, una sensazione di essere costretto in un corpo che avrei voluto strapparmi di dosso, talmente tanti e vari erano i segnali di malessere che ricevevo da esso. Ero al quarto anno di università, in un momento in cui feci alcune scelte personali difficili e, sovrastato dalla fatica e dall’insoddisfazione che provavo nelle mie giornate, decisi di intraprendere delle sedute di psicoterapia cognitivo-comportamentale. Parimenti, su consiglio dei primi specialisti che visitai per i miei dolori, mi sottoposi a delle sedute di ginnastica posturale, seguito da una fisioterapista.
Un anno più tardi smisi con la psicologa: i miei moderati sintomi ansioso-depressivi erano per lei superati, ma i dolori erano ancora lì. Stavo meglio, ma la cervicale ed il gluteo sinistro erano come avvolti in una morsa metallica: potevo sentire le loro fibre muscolari contorcersi e irrigidirsi, in una sensazione di costante malessere che non mi abbandonava mai. Dal risveglio alla notte quei dolori mi pungolavano, picchiando forte alle porte della mia mente; ripresi a fare un poco di sport, ma era ormai come se fossi fatto di cristallo, perso in un infinito susseguirsi di fastidi ed infiammazioni, che subito mi riportavano alla memoria il baratro da cui ero faticosamente riemerso nei mesi prima.
Ma non mi arresi, decisi che avrei dato un nome al male che mi affliggeva; esso era troppo grande e spaventoso per essere ignorato, e la sensazione stessa di brancolare nel buio non faceva altro che farmi stare peggio.
Sono un ingegnere, e del calvario che mi avrebbe atteso nei successivi quattro anni lascio parlare i numeri. Ecco quindi l’insieme di specialisti a cui mi sono rivolto per trovare una diagnosi ed una cura ai miei dolori (almeno quelli di cui ricordo):
Fisioterapisti | 6 |
Osteopati | 4 |
Anestesisti | 4 |
Ortopedici | 3 |
Chiropratici | 3 |
Fisiatri | 2 |
Reumatologi | 2 |
Medici di base | 2 |
Medico dello sport | 1 |
Medico Agopuntore | 1 |
Dentista | 1 |
Oculista | 1 |
Fanno esattamente 30 persone, praticamente il personale di un piccolo ospedale, molte delle quali mi hanno visitato o comunque trattato più volte. A queste si affiancano i seguenti esami:
RMN | 3 |
RX | 2 |
ECO | 2 |
Esami del sangue | 1 |
A cui si somma l’acquisto di un plantare ortopedico fatto su misura, totalmente inutile, più i vari ausili (tavolette, elastici, etc) necessari alla fisioterapia.
Questi anni sono stati un tempo di grande dolore, fatto di fatiche nel portare avanti le mie cure, cercando gli specialisti adatti, facendomi visitare ed eseguendo le sedute prescrittemi, il tutto avvolto da una grande stanchezza mentre muovevo i primi passi nel mondo del lavoro.
Che difficoltà tornare a casa alle sette dall’ufficio, esausto, e prima ancora di cenare trovare le forze per recarmi del fisioterapista di turno. In un’escalation di professionisti sempre più rinomati, trovandomi a volte a passare più tempo in macchina di quello previsto dalla durata della seduta.
Ci sono stati tanti dubbi, tante paure che tutto quello che stessi facendo fosse inutile, che sarebbe bastato poco per tornare al punto di partenza o anche peggiorare. Ogni nuovo dolore mi sembrava l’ennesima montagna da scalare, un altro problema che mi sarebbe costato tempo e denaro per essere risolto.
Alcuni dottori non mi hanno creduto, e c’è chi mi ripeté più volte di lasciar perdere e di curarmi facendo delle passeggiate. Ci sono stati specialisti indifferenti, altri che pensarono solo a spillarmi soldi, ma anche molti che tentarono con tutta la loro professionalità (e anche più) di darmi una mano.
“Stai meglio? Ti fa meno male?” mi chiedevano dopo una certa manovra o alla fine di una seduta.
“Mmmh” rispondevo imbarazzato, sforzandomi con tutto me stesso nell’ascoltare il mio corpo “no, non tanto”.
Che pena la delusione cocente di non trovare un sollievo, e vedere persone competenti e disponibili spaesate sul da farsi.
Quando tutti gli esami strumentali furono fatti, non rimase altro che parlare di “dolori muscolari”, di “mal postura” o di “atteggiamenti scorretti”. Quante volte mi sono sentito sbagliato, e me la sono presa con me stesso per non essere seduto perfettamente dritto, per essere teso in una situazione stressante, per camminare storto o per non fare abbastanza bene gli esercizi a casa che mi erano stati assegnati.
Non nascondo di aver spesso pensato di necessitare ancora di un supporto psicologico, che forse non avevo davvero superato le mie difficoltà interiori e di essere in fondo troppo fragile per vivere. Il tutto mentre il mio corpo era stabilmente ed ineluttabilmente segnato da un dolore costante.
Infine, in un ultimo tentativo, ricevetti alla fine una diagnosi concreta e non dettata dal buon senso: Fibromialgia. Qualche anno prima sarei stato profondamente disturbato dalla prognosi, ma per il punto a cui ero giunto presi la cosa quasi con indifferenza, quasi fosse la naturale ed insapore conclusione di quell’interminabile vagare durato anni. Ci sono voluti due o tre giorni per provare un grande senso di liberazione.
Mi è stato così finalmente dato il supporto farmacologico che mancava, visto che già negli anni precedenti avevo assunto una dieta e un’attività sportiva consona al mio stato.
Questa cura non è perfetta ed io sono ancora agli inizi, ma è stato incredibile tornare ad avere una mente non più assillata dal dolore; con questo non voglio assolutamente dire che sia assente, tutt’altro, ma un conto è convivere con il brusio di una stanza affollata, un altro con un folle che ti grida con il megafono nelle orecchie.
Quello che voglio urlare io al mondo è invece che la mia storia non si deve ripetere, perché sono stato un privilegiato ad aver avuto il tempo, i soldi e la forza interiore per arrivare ad una diagnosi consistente. Sono certo che molti malati di fibromialgia non hanno nemmeno le possibilità per arrivare a conoscere il male che le affligge, e vorrei disperatamente che questo messaggio giunga loro e che li possa aiutare. Perché questa sindrome va prima di tutto compresa, per essere curata, perchè esserne all’oscuro equivale a diventare un malato immaginario. Prima per chi gli sta attorno, e alla fine per sé stesso.
A tutti coloro che soffrono, di fibromialgia o di altro, e che conoscano o meno il proprio male, va il mio abbraccio, e la grande lezione che ho imparato.
Ogni dolore è reale, e non c’è niente di peggio del dolore vissuto nella solitudine o sotto lo sguardo giudicante di una persona che non ti crede. I medici in primis, ma tutti noi come società, dovremmo imparare maggiormente ad ascoltare chi soffre senza compatirlo o rimproverarlo; certo non ci si può lamentare per ogni problema o dolorino, ma non si può nemmeno dare del pazzo o del debole a chi da mesi o addirittura da anni riporta gli stessi sintomi. Ci sono strumenti farmacologici, psicologici e comportamentali da prescrivere ed attuare, per rendere migliore un’esistenza che rischia altrimenti di diventare una lotta quotidiana per tirare avanti.
A tutti i guerrieri di cristallo come me, auguro che sapremo trovare ogni giorno sempre più un modo migliore per convivere con questa sindrome cronica in attesa, chissà, di una vera e propria cura.
Nel mentre, se la società in cui viviamo preferisce la performance e l’eccellenza all’inclusività, dobbiamo essere noi stessi a costruirne una migliore, una che sappia accogliere tutti, con le proprie differenze, capacità e contributi. Perché la fibromialgia è fatta anche di tanta stanchezza, fisica e mentale, che spesso non permette di fare ciò che si desidera ardentemente.
Chiudo con una frase che il destino ha voluto che mi portassi dietro fin dall’infanzia, e che sentii dire da bambino nel mio cartone Disney preferito:
“Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti”.
(Andrea Dugnani)