Un appello agli addetti ai lavori

Di Fibromialgia non si muore.
Tanto basta a molti medici per non sentire come prioritario il trattamento dei soggetti fibromialgici, ipocondriaci fino a ieri, oggi malati scomodi per quel loro bisogno di approccio integrato alla cura in cui, si sa, non brilla il Servizio Sanitario Nazionale.

I medici di Medicina Generale, con troppi pazienti sulle spalle, non hanno tempo per seguire casi che necessitano di percorsi terapeutici personalizzati come quelli dei pazienti fibromialgici. E poi del resto… la fibromialgia è una patologia molto seria, no? Meglio quindi rinviarla agli specialisti… Specialisti chiusi nei loro paramondi fanno i conti con risorse contingentate e se si tratta di dare accesso a servizi di qualsivoglia natura, volentieri rimandano ad altri i casi in cui non sia richiesto in esclusiva il loro sapere.

Il reumatologo manda dal fisiatra per una riabilitazione e il fisiatra, non essendo visibile la fonte del danno (non c’è ictus, trauma, intervento chirurgico o altro) rinvia allo psichiatra.

La psichiatria tratta i problemi relazionali, ma spesso, il solo fatto di essere seguiti da uno psichiatra è causa di problemi per quel sospetto che si insinua: “…sarà un soggetto pericoloso?”.

Se avere in famiglia o vicino un malato fisico può essere pesante, ma ci si può anche sentire in dovere di dargli una mano, di un malato mentale si ha paura e si cerca di stargli lontano.

E allora, su quale terreno cadono i consigli ai pazienti come quello di riconoscere senza drammi i propri nuovi limiti, di ricercare attivamente il sostegno degli altri quando necessario, di imparare a dire “no”?

E come fare in modo che il bisogno di momenti di relax, di spazi dedicati al movimento, di ritmi di vita non esasperati, vengsno visti come reali necessità del paziente e non come l’ennesimo capriccio di un perdigiorno?

Almeno in questo i medici di medicina generale potrebbero avere un ruolo d’elezione: chi meglio di loro vede l’inserimento del paziente nel suo ambiente? Chi meglio di loro può spiegare alla famiglia come aiutare il paziente nei suoi bisogni?

Anche i Servizi Sociali possono dare un contributo quando le limitazioni imposte dalla patologia rischiano di diventare fonte di esclusione sociale.

Serve però un linguaggio comune.

Serve un linguaggio capace di attivare al meglio le poche risorse interne al sistema socio-sanitario e di avviare un dialogo con la società civile.

Non può essere il paziente l’unico vettore di sensibilizzazione verso troppe orecchie da mercante. In particolare, se nuovi e vecchi casi possono senz’altro tutti avvantaggiarsi della recente consapevolezza relativa ai meccanismi della malattia e di nuovi programmi terapeutici, per quanti hanno visto a lungo la propri vita e i propri rapporti umani fortemente condizionati da incomprensioni e chiusure oltre che dalla patologia, è forse necessario un protocollo aggiuntivo mirato ad un loro graduale reinserimento nel tessuto sociale rispetto delle loro specificità.

Perchè di fibromialgia non si muore, ma senza lavoro, con una limitata autonomia motoria e in un deserto relazionale, diventa davvero difficile sopravvivere.

(lettera firmata)

 


 

Gli esperti rispondono

Marco Cazzola

Gentile Signora,
la sua lettera mette a fuoco, con estrema puntualità e precisione, tutti i problemi che non solo i pazienti, ma anche i medici che si occupano di fibromialgia incontrano nel tentativo di attivare un approccio multidisciplinare al trattamento della malattia. Le incomprensioni nascono spesso, anche nel rapporto tra diversi specialisti, quando alcuni di coloro che dovrebbero occuparsi di un particolare aspetto della malattia non sono interessati, informati o aggiornati sulla fibromialgia. Quello che dovrebbe essere un iter diagnosticoterapeutico condiviso e accettato da tutte le ramificazioni del Sistema Sanitario diventa, nella realtà quotidiana, una continua ricerca di collaborazione interprofessionale lasciata alla buona volontà del singolo. Esistono, poi, le ripercussioni familiari e sociali della malattia. E’ assolutamente condivisibile l’asserzione da Lei fatta circa la necessità di un linguaggio comune, comprensibile, non limitato agli aspetti tecnicistici, che permetta di avviare un dialogo non solo nell’ambito del mondo medico, ma anche nella società civile. Altrettanto vero è che il singolo paziente nulla può per sensibilizzare, a diversi livelli, coloro che dovrebbero intervenire per attenuare, se non risolvere, i suoi problemi. Pertanto solo l’unione dei singoli in una casa comune, rappresentata da associazioni libere e liberali, riuscirà, (forse) a stimolare quei mutamenti di pensiero, a livello politico e sociale, utili per il riconoscimento di una condizione dolorosa cronica, disabilitante ma … invisibile. Ciò è quello in cui noi crediamo.

 

Luisa Quattrina

Gentile Signora,
i suoi problemi sono i problemi di tutti noi fibromialgici e il proverbio ”mal comune mezzo gaudio” già mente quando si è sani, ancor più quando c’è di mezzo il dolore. Diversamente è vero che “l’unione fa la forza” e questo perché aggregarsi permette di dare voce possente a un problema. Da soli non ci si riesce a far sentire, ma insieme si possono trasformare i bisbigli in accenti sonanti. Più si è e meno si deve urlare. Chi le scrive crede con determinazione che le associazioni (non solo la nostra, ma tutte quelle che non lucrano sulle sofferenze dei malati) siano lo strumento valido per arrivare: ai parlamentari distratti, ai giornalisti improvvisati, ai medici di famiglia confusi, agli specialisti disinformati, ai luminari egocentrici. Per questo motivo occorre essere attivi, costruttivi, e partecipi anche solo seguendo gli sviluppi e l’evolversi delle situazioni. Una volta ci sarà da firmare una petizione, un’altra diffondere un comunicato, un’altra ancora dimostrare fuori dal Parlamento. Un ultimo proverbio “gutta cavat lapidem”, se una goccia scava la roccia 10-100-1.000-10.000- un milione di gocce cosa potranno mai fare? Continui a scriverci.