Nella sezione AISF Onlus di Bagheria, nata nell’aprile del 2016, quello che ho percepito con immediatezza, insieme all’energia dei soci che si sono organizzati in tempi relativamente brevi, è stata la comune tensione per un loro riconoscimento umano: riconoscimento della loro sofferenza fisica che a causa di una complessità e persistenza di sintomi non è di facile diagnosi o risoluzione, e attenzione per le singole storie di peregrinazione da uno specialista all’altro, da una città all’altra, in cui si sono sentiti etichettati come “ipocondriaci”, “esagerati” e “visionari”. Verrebbe da dire che oltre al danno (la sofferenza nel corpo) questi pazienti hanno subito la beffa (la sofferenza nello spirito) di essere misconosciuti o derisi e per questo si sono sentiti ancora più soli nella loro sofferenza. In qualità di psicoterapeuta, quello che in primis mi propongo di offrire è il riconoscimento della persona per ciò che è oltre la sua malattia, e di ciò che porta nel qui ed ora come sofferenza. Non potrà esserci alcun passaggio evolutivo finché il paziente non sentirà di essere stato visto in un modo non giudicante, ma accogliente ed empatico.

«Il sentirsi “visto” nella propria unicità dagli occhi di un altro, permette al paziente di “vedersi”, di “riconoscersi” anche negli aspetti più segreti, inaccessibili e, forse, inaccettabili della propria vita. Con particolare acume, afferma Polster: “proprio come vedere con due occhi dà profondità alla visione, essere riconosciuto dagli altri conferisce una nuova dimensione all’esistenza individuale» (Cavaleri P., in Idee in psicoterapia volume 2, N.1, 2008).

Riconoscere l’altro è anche riconoscere che ha fatto del suo meglio, con le risorse che aveva a disposizione e nell’ambito delle relazioni che ha vissuto; riconoscere nella sua sofferenza e nei sintomi che ci porta il suo adattamento creativo, ovvero l’unica possibilità che ha avuto per adattarsi o addirittura sopravvivere in un ambiente difficile. Anche in questo, la psicoterapia della Gestalt si differenzia dagli altri approcci corporei perché non mira ad eliminare i “sintomi”, cercando per esempio di modificare i blocchi muscolari attraverso esercizi specifici o con pressioni in certi punti o modificando la respirazione, piuttosto esplora il senso che questi “sintomi” hanno per il paziente, in che modo sono stati funzionali per lui, e insieme (paziente e terapeuta) fare esperienza di come essi operino nel presente e gli siano ancora utili.

Lo psicoterapeuta della Gestalt guarda sempre al processo corporeo del paziente, il corpo è «veicolo del nostro essere nel mondo e organo di contatto per eccellenza che raccoglie sia la memoria dei contatti precedenti che la creazione dei contatti attuali» (Spagnuolo Lobb, 2011).

La relazione terapeutica è uno spazio/tempo co-costruito (terapeuta e paziente partecipano seppure in un ruolo diverso al processo di cura, non c’è colui che sa (il terapeuta) e colui che deve apprendere (il paziente) ma un’esperienza nuova e condivisa) relazionale (un incontro reale tra due persone e non il prodotto di proiezioni di schemi o figure del passato) ed estetico (ovvero basato sull’esperienza di sé e del mondo attraverso i sensi, quelli del paziente e quelli del terapeuta); un incontro in cui è la novità del contatto nel qui ed ora che permetterà al paziente di trovare un modo altro, più integro e per questo meno doloroso di essere con l’altro anche al di fuori della relazione terapeutica. In terapia non basta la consapevolezza (molto spesso i pazienti conoscono già l’origine della loro sofferenza) per “guarire”, ma è importante fare esperienza di una novità relazionale, della possibilità di sentirsi diversi non solo nella testa, ma nel corpo. Il terapeuta si fa compagno nella sofferenza, sostegno nel dolore e garante della fiducia nella capacità autoregolativa del paziente e del processo terapeutico come agente di cambiamento.

 

Favaloro Rosanna
Psicologo, Psicoterapeuta della Gestalt – Istituto HCC Italy di Palermo