Per la rubrica Fibrini si raccontano, vi presentiamo il racconto di Eliana Porro


Quando nel 2008 sono andata per la prima volta da un reumatologo a causa di un mignolo, diventato senza un motivo apparente, grosso come un mio pollice, non avrei mai pensato di iniziare una specie di transumanza.. Da reumatologo a immunologo, da immunologo a epatologo, da epatologo a otorino, da otorino a neurologo, da neurologo a epatologo, da epatologo nuovamente a reumatologo.

 Passati nel frattempo due anni e mezzo, ad un certo punto sembrava di essere tornata al punto di partenza, ma non è stato così, fortunatamente. Alla fine della mia ennesima visita avevo ricevuto la diagnosi: Fibromialgia.

Malattia cronica da cui non si guarisce, mi avevano detto.

Devo ammettere che all’inizio ero un po’ perplessa perchè non sapevo molto di questa sindrome, ma alla fine mi sono affidata.

Avevo quarantotto anni e da quel momento in poi, i medici che ho incontrato, hanno lavorato per trovare la cura migliore per me.

Si sa che per la fibromialgia non è facile: ogni sei mesi una visita, un aggiustamento, una verifica, qualche volta sembra che tutto proceda per il meglio, che la situazione si sia stabilizzata, poi  arriva un nuovo sintomo, inaspettato, che costringe ad un aggiustamento della terapia, salvo poi incorrere in un vero e proprio peggioramento, ed ecco una cura nuova, una nuova speranza.

Si arriva a sperare, non di tornare come prima, non di stare bene, ma di stare meglio… ma meglio rispetto a cosa?

Beh, per me ad esempio, meglio è stato non avere più le mie crisi di emicrania, che nel frattempo si erano presentate, costanti e regolari: tre giorni di emicrania, tre giorni di respiro, tre giorni di emicrania, tre giorni di sollievo, e così via. Ci sono voluti cinque lunghi anni per uscirne. E posso assicurare che, quando questo è successo, mi sono sentita guarita, e del resto mi importava  tutto molto meno.

Adesso ho cinquantanove anni, e faccio la casalinga. Non per scelta, perché ho perso il lavoro più di dieci anni fa, per ovvii motivi. Sono impegnata in tutto quello che generalmente una casalinga che si rispetti fa. In verità proprio tutto, no; mio marito si occupa del giardino, fa la spesa, svuota la lavastoviglie, prepara il pranzo ed a volte anche la cena. Gli piace cucinare… e, per quanto faticoso, anche estirpare erbacce gli dà una certa soddisfazione. Detesta invece fare la spesa e svuotare la lavastoviglie, ma lo fa perché mi vuole bene.

Siamo arrivati gradualmente a questa divisione di compiti quasi senza rendercene conto, dato che le mie attività quotidiane prevedono una certa selezione: o stiro o vado a fare la spesa, o lavo i pavimenti o cucino. Mi stanco facilmente, quindi gestisco le mie energie con attenzione.

Da anni mi sono dovuta abituare a un’alternanza lavoro-riposo che devo amministrare bene. Se faccio qualcosa stando in piedi ferma, oppure al contrario “agitandomi” troppo, a un certo punto suona il mio campanello d’allarme, e mi devo sedere, dolorante. Passa un po’ di tempo e mi rialzo, ricomincio e poi mi fermo nuovamente, e così via… non posso fare tutto quello che vorrei fare, o quello che è necessario, né quello che per altri è normale. La mia stanchezza è ad accumulo, e anche quando mi fermo per riposare, non mi concede un pieno recupero. È come se avessi, da quando mi alzo al mattino, e ogni mattino è diverso, una batteria con una certa autonomia prestabilita e non ricaricabile: quella è, e devo fare in modo che basti.

Non è facile, ma ho capito a mie spese che le giornate e i periodi non sono tutti uguali, e so anche che posso fare in modo che quella lunga parentesi di sofferenza non ritorni, grazie ai farmaci e al mio comportamento più consapevole.

 E’ sempre doloroso ricordare quello che mi è successo durante quei dieci anni durissimi, forse perché lo associo anche a un sentimento di incomprensione da parte delle altre persone, e contemporaneamente al mio senso di impotenza: Come si fa a spiegare quello che non è del tutto chiaro persino a te stessa, a chi non vuole ascoltare? È un’impresa faticosa e deprimente.

A tale scopo ho deciso di scriverlo, nero su bianco, forse qualcuno si riconoscerà nel mio racconto.

Ricordo i miei risvegli, da orso rintronato dal letargo. Mi dicevo: “Mi sento come se mi avesse investito un tir…”. Anche le nottate erano una lotta, mi dovevo aiutare con le braccia, afferrando il bordo del materasso, per riuscire semplicemente a passare da un fianco all’altro, per il gran dolore di schiena, spalle, gambe, e per via della mancanza di forze.

Provavo ad alzarmi e mi sembrava di avere ottant’anni. Alle volte non riuscivo nemmeno a stare seduta, come se fossi senz’ossa, come se l’impalcatura del mio scheletro non reggesse più.

Oggi fortunatamente qualcosa è cambiato e la qualità della mia vita è migliorata sotto tanti aspetti.

Un dottore un giorno mi ha detto: “Dipende solo da lei, meno medici vede, meglio è…”.

Non è stato così per me, da sola non ho fatto altro che peggiorare. Senza le cure e i consigli dei medici – quelli giusti, psicologo compreso – e la vicinanza della mia famiglia non ce l’avrei mai fatta. Certo per arrivare a questo risultato ho dovuto fare un percorso lungo e impegnativo.

Mi ha favorito sicuramente avere avuto in passato – oltre al mio lavoro – interessi di vario genere. Anche quella è stata la mia salvezza. Ad esempio, ho ripreso lo studio del flauto, che avevo dovuto lasciare a causa dell’emicrania. È stato ed è tuttora una vera consolazione, per umore e cervello. Mi ha aiutato molto, non solo a conoscere persone nuove e fare esperienze diverse, ma anche a riempire il vuoto lasciato da un lavoro – che era la mia passione – che ho dovuto abbandonare. Ogni tanto mi ritorna indietro un po’ di rabbia, ma pazienza, ormai ho – quasi – fatto pace anche con questo.

Sono rassegnata? No! Sono serenamente pratica: mutatis mutandis, se non posso più fare quello che facevo una volta, cerco di fare con amore e attenzione quello che posso. E mi ritengo fortunata, perché di fibromialgia non si muore, al massimo – e ben venga – ci si riposa.

Eliana Porro