La Sindrome Fibromialgica ha forte impatto sulla vita delle persone e può influenzare anche lo svolgimento delle attività lavorative. Partendo da questa consapevolezza, ho deciso di affrontare la tematica dello svolgimento e del mantenimento lavorativo per pazienti con Fibromialgia come argomento della mia Tesi di Laurea Magistrale in Psicologia Sociale, Economica e delle Decisioni.

Obiettivo

L’obiettivo della mia ricerca è stato identificare quei fattori che, all’interno del contesto lavorativo e all’esterno di questo, possono rappresentare degli elementi significativi che influiscono favorevolmente sulla percezione della propria workability, rendendo quindi più positiva l’esperienza di lavoro per lavoratori con diagnosi di Sindrome Fibromialgica, così da favorire anche il mantenimento della propria occupazione, con tutti i risvolti positivi che ne possono conseguire in termini di soddisfazione personale, motivazione e autoefficacia.

Metodo

Per strutturare la mia ricerca sono partita da un’analisi della letteratura relativa ai fattori che facilitano il mantenimento lavorativo per persone con patologie croniche simili per segni e sintomi alla Fibromialgia, con il fine di identificare quali fattori emergenti potessero rappresentare elementi significativi e utili anche per persone con Sindrome Fibromialgica.

Dall’analisi sono emersi elementi relativi a tre macrocategorie: l’influenza di aspetti sociali interni all’organizzazione e all’ambiente lavorativo, fattori fisici e ambientali legati allo spazio operativo, ed elementi legati all’influenza della vita sociale extra-lavorativa.

Ho scelto di svolgere una ricerca qualitativa che mi permettesse di approfondire ogni ambito e cogliere diverse sfumature relative al fenomeno attraverso i racconti, le storie e le esperienze dirette delle partecipanti. Ho quindi realizzato un’intervista semi-strutturata, con domande relative ad ogni categoria di fattori. Le interviste sono state condotte con modalità telefonica o tramite video chiamata. A partire da quanto emerso nelle interviste ho condotto un’Analisi Tematica (V. Braun, V. Clarke, 2006) finalizzata ad ottenere codici e temi rilevanti rispetto agli obiettivi di ricerca.

Campione

I partecipanti al progetto di ricerca sono stati coinvolti previo contatto con i referenti dell’associazione AISF ODV.  Attraverso un post sulla pagina social dell’associazione è stata proposta la ricerca con partecipazione volontaria e con due criteri essenziali per poterne essere coinvolti: la presenza di una diagnosi certa di Sindrome Fibromialgica e l’essere attualmente impiegati in attività lavorativa.

Hanno partecipato alla ricerca 20 donne, tutte residenti in Italia, la maggior parte occupate come dipendenti, in alcuni casi anche lavoratrici autonome. L’età media delle intervistate è di 44 anni.

Analisi e risultati

Le donne intervistate per la mia ricerca sono accomunate dall’aver iniziato a lavorare prima della diagnosi di Fibromialgia. La maggior parte ha riferito, a seguito dell’acuirsi dei sintomi e a fronte della diagnosi, di cambiamenti importanti nel rapporto con il proprio lavoro e nella gestione della giornata lavorativa. Solo alcune però, a seguito dell’accertamento della malattia, hanno scelto di cambiare la propria occupazione, o chiedendo dove possibile di svolgere una mansione che fosse quanto più possibile compatibile con la propria salute, oppure riducendo gli orari di impiego attraverso contratti part-time.

Un elemento che influisce notevolmente e rappresenta un importante limite, ed è infatti stato spesso portato all’attenzione, è la percezione e il riconoscere di non essere tutelate a livello legislativo, in particolar modo per chi lavora in piccole aziende o enti privati dove è più difficile poter raggiungere l’accesso a tutele. E ancora più complicato lo è per le lavoratrici autonome che, per quanto possano gestire tempi e carichi di lavoro autonomamente, non avendo nessun tipo di riconoscimento e tutele vedono condizionata anche la propria possibilità di guadagno.

La tutela legislativa e il riconoscimento dello stato di malattia faciliterebbero numerose dinamiche, evitando che la sintomatologia venga scambiata per mancanza di voglia o di volontà di lavorare, come viene evidenziato dalle intervistate.

Oltre a questo, si potrebbe pensare di intervenire anche su alcuni fattori che facilitino lo svolgimento delle attività di lavoro. In particolare, tra i fattori a cui prestare attenzione, ci sono quelli legati alla dimensione sociale e alle relazioni interne all’organizzazione in cui si lavora.

Un primo importante tema che emerge dai racconti, rispetto a questo ambito, è la scelta di fronte a cui si trovano queste donne lavoratrici di comunicare oppure no ai datori di lavoro e ai colleghi la propria diagnosi, essendoci ancora oggi poca conoscenza della patologia e quindi di conseguenza poca comprensione da parte degli altri.

Quindi il conseguente supporto che si può ricevere dai colleghi, con cui si è in contatto per la maggior parte del tempo, e dal datore di lavoro, da cui dipende la possibilità di accomodazioni ma anche l’orientamento di tutto il gruppo di lavoro. L’empatia e la comprensione sono infatti fondamentali per poter lavorare in un clima disteso senza giudizi che possono sfociare in mobbing ma, al tempo stesso, è importante che non ci sia una considerazione differenziata, che non vengano date etichette legate alla malattia e poste limitazioni a priori nell’esecuzione di alcune mansioni o compiti, se non richieste dalle lavoratrici stesse e concordate con loro.

D’altra parte, alcune delle persone con cui mi sono confrontata nelle interviste riportano che all’interno del contesto di lavoro non cercano supporto e sostegno perché considerano la fatica sperimentata come qualcosa di individuale che non riguarda il rapporto con altri, che non cambierebbe neanche avendo il loro supporto e ciò che si vuole evitare è proprio cadere nella trappola del vittimismo.

Sicuramente però un clima di lavoro sereno e dei rapporti equilibrati con colleghi e datore di lavoro possono in generale semplificare le dinamiche lavorative. In questo senso, favorevole sarebbe anche non ricevere domande invadenti e inadeguate circa la patologia che potrebbero far sentire a disagio e generare stress.

Relativamente al supporto atteso da parte dal datore di lavoro viene citato prevalentemente il riconoscimento di accomodazioni in termini di flessibilità di orari, sia attraverso contratti part-time, sia distribuendo diversamente l’orario di lavoro nel corso della settimana, per esempio nel caso di insegnanti e docenti la possibilità di non avere le prime ore di insegnamento.

Ancora considerata ottimale sarebbe la possibilità di home working, per gestire autonomamente orari, pause e spazi di lavoro. Infine, l’opportunità di cambiare mansione, dove possibile, ottenendo ruoli che per esempio non implichino il contatto con il pubblico nei casi in cui questo generi difficoltà, oppure che evitino il sollevare pesi e carichi.

Dai racconti emerge come sia necessaria un’attenzione maggiore nei casi di cambio mansione, perché talvolta i cambi di ruolo non sono individualizzati e strutturati su misura in base alle esigenze del singolo, e di conseguenza non si rivelano effettivamente più adeguati.

Un fattore interessante emerso come elemento a cui prestare attenzione all’interno del contesto lavorativo è il dress-code: indossare divise, abiti formali e tacchi, per esempio, potrebbe essere una richiesta limitante se accentua fastidi o dolori già presenti.

Un altro elemento su cui ho voluto porre l’attenzione è la presenza di figure professionali quali psicologi operanti all’interno dell’organizzazione. Rispetto al loro ruolo c’è però un’ambivalenza di pensiero. Chi non ritiene necessaria la loro presenza perché questo tipo di supporto lo cerca al di fuori del contesto lavorativo ed eventualmente considera la loro presenza utile solo per sé per avere un supporto nella gestione, per esempio, del carico emotivo implicato dal lavoro. Viceversa chi considera la figura dello psicologo importante anche per mediare la relazione con i colleghi, poiché potrebbe in modo più adeguato e incisivo informare circa la sindrome e le sue conseguenze, potrebbe fare da mediatore per far comprendere le richieste e le necessità, ed essere d’aiuto per relazionarsi evitando rabbia, giudizi e incomprensioni. Non ultimo lo psicologo potrebbe fare da tramite tra lavoratori e medici del lavoro, con un linguaggio adeguato che garantisca reciproca comprensione. Queste figure sono però realmente importanti solo se sono adeguatamente formate circa la patologia e i suoi sviluppi, così da offrire anche soluzioni funzionali.

In relazione agli aspetti fisici-ambientali è importante portare l’attenzione su quegli elementi strutturali che possono rappresentare delle barriere fisiche all’interno del luogo di lavoro come la presenza di scale, l’impossibilità di usare ascensori, l’assenza di parcheggi riservati o vicini, la cui rimozione o sostituzione potrebbe essere un elemento facilitante.

Altro fattore che è emerso come fortemente incidente è il tragitto verso il luogo di lavoro: per quanto le esperienze si differenzino, per la maggior parte delle donne una distanza troppo lunga da percorrere per arrivare al lavoro impatta sulla giornata. Mezzi pubblici, auto, bici comportano ciascuno aspetti negativi differenti a cui prestare attenzione.

Altri aspetti interni all’ambiente di lavoro, a cui spesso non si pensa, ma che possono complicare lo svolgimento dell’attività lavorativa sono per esempio: i rumori e le voci provenienti da colleghi che parlano nello stesso ufficio, suonerie, rumori di macchinari che influiscono sulla concentrazione; la presenza di luci troppo forti che stancano la vista; device (computer, stampanti, ecc..) non adeguati; o ancora il dover mantenere alcune posizioni rigide troppo a lungo.

L’ultima area considerata è l’influenza della vita sociale extra-lavorativa, per individuare se questa può rappresentare in qualche misura un fattore facilitante anche per le dinamiche lavorative. Sicuramente emerge forte il bisogno di bilanciare ed equilibrare vita lavorativa e vita sociale, spesso infatti viene richiesto un investimento della maggior parte delle energie in una a discapito dell’altra.

Affinché la vita sociale esterna al contesto di lavoro rappresenti un fattore facilitante è necessario che le persone vicine e gli affetti comprendano, supportino e aiutino sia da un punto di vista morale ed emotivo, sia da un punto di vista pratico e concreto, con aiuti nella gestione della casa, delle faccende domestiche, della famiglia. Avere relazioni che aiutino a distrarsi dalle dinamiche di lavoro e a ricaricarsi preferendo uscite in situazioni più protette, riservate, in luoghi non troppo affollati o caotici, con ritmi adeguati. Il non essere comprese porta a chiudersi in sé, ad evitare di cercare supporto, limitando i rapporti sociali che rappresentano comunque una forma di sostegno che potrebbe incrementare il benessere e influire positivamente sull’umore.

Ultimo tema relativo a quest’ambito di indagine riguarda la partecipazione ad associazioni e gruppi di auto-mutuo-aiuto. La maggior parte delle intervistate ha raccontato di partecipare più o meno attivamente ad associazioni e in pochi casi a gruppi AMA. Tuttavia, raramente il confronto con altri partecipanti ha riguardato tematiche riguardanti il lavoro, nonostante sia un argomento rilevante rispetto alla relazione tra il fattore economico e la sindrome: è una patologia spesso costosa essendoci poche esenzioni per le molteplici e differenti terapie e cure che richiede. Di conseguenza è necessario avere un lavoro che garantisca uno stipendio e un guadagno adeguato a poter sopperire anche alle altre spese di gestione personale e familiare.

Dalle esperienze raccolte nella ricerca sembra emergere come la Sindrome sia comunque un fattore che stimola queste persone e le sprona a voler star bene al lavoro, ad avere un clima sereno e rapporti tranquilli con i colleghi e il datore di lavoro al fine di non complicare ulteriormente attività che già di per sé richiedono sforzo e impegno.

Tuttavia, la tendenza è principalmente quella di trovare da sole delle nuove strategie per riuscire a gestire le attività e i compiti che caratterizzano il proprio lavoro. Per mantenere un’elevata resa lavorativa importante – ma spesso difficile da ottenere – sarebbe un coinvolgimento nella definizione e programmazione delle proprie mansioni, al fine di considerare tutti quei fattori che con un’adeguata e particolare attenzione possono facilitare le dinamiche lavorative e quindi il mantenimento della propria occupazione con soddisfazione e ricadute positive sul proprio benessere generale.

Le difficoltà nello svolgere il lavoro spesso sono demoralizzanti, ma con contesti inclusivi che tengano conto di fattori medici, giuridici, sociali, ambientali e psicologici, il lavoro potrebbe diventare una risorsa preziosa con ricadute positive dal punto di vista psicologico per la malattia.

Questa ricerca mi ha permesso di trattare più a fondo due tematiche che mi stanno a cuore, la Sindrome Fibromialgica e il mondo del lavoro. Mi ha permesso di entrare in contatto con persone che si sono fidate e affidate a me. Ringrazio chi ha deciso di aprirsi e raccontarsi, spero di aver portato all’attenzione del mondo accademico questa sindrome contribuendo a farla conoscere, a far comprendere quali difficoltà comporta e quali fatiche si nascondono nel mondo del lavoro e nelle pratiche quotidiane di queste persone.

Sara Oprandi

Laurea Magistrale in Psicologia Sociale, Economica e delle Decisioni


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