Quando mi sono formato come facilitatore, verso la fine degli anni ’90, ero interessato a conoscere meglio il sostegno alle persone con dipendenza (alcolisti, disturbi alimentari, ecc…).

Avevo in testa quelle scene dei film americani, in cui il protagonista si ritrova al centro del gruppo e, presentandosi più o meno con questa formula, dichiara “Ciao, mi chiamo Alessio e sono un alcolista”, e dunque in coro tutti rispondono “Ciao Alessio!”.

Non potevo immaginare le potenzialità del gruppo di AutoMutuo Aiuto (AMA) in ambiti di cura anche molto diversi e lontani dalle dipendenze, ad esempio, rimanendo nell’ambito della salute mentale, attacchi di panico e ansia.

Con la mia abilitazione come psicologo, ma soprattutto con la specializzazione in Psicologia della Salute, ho potuto approfondire quanto sia importante agire nella promozione di un territorio sano, una comunità curante.

Cosa intendo per “comunità curante”? Essenzialmente la considero una dimensione sociale inclusiva, accogliente, ispirata a valori di equità (che è diversa dall’uguaglianza), solidarietà e ascolto.

Questi sono proprio i valori che fondano un qualsiasi gruppo AMA: accoglienza, ascolto, empatia. Nel nostro sistema sociale, stiamo assistendo ad un impoverimento delle relazioni di vicinato, di quartiere, di sostegno. Le parrocchie, per tradizione luoghi aperti, hanno perso il loro ruolo di integrazione, di incontro. I centri sociali, le vecchie società di mutuo soccorso, con il tempo si sono diradati (quando non chiusi), spesso ridotti a centri anziani. Un destino simile hanno le biblioteche, considerate troppo spesso dei non-luoghi, utili agli studenti e basta.

Se aggiungiamo la grave contingenza dell’isolamento per Covid19, possiamo descrivere uno scenario depauperato di tutte le essenziali risorse socializzanti, in forte bisogno di ricostituire un tessuto di relazioni a tutti i livelli, dai più intimi a quelli istituzionali.

Ci sono da tempo dei “disagi sottosoglia”, gruppi di popolazione marginalizzati, isolati, la cui voce sofferente non trova spazi nè interlocutori.

Non sono “emergenze”, non sono allarmanti, non appartengono a “categorie protette” ma sono a rischio di diventare tutto questo, sono in una zona grigia che non permette assistenza, presa in carico. Sono le tante cronicità, frutto di anni di degrado: disoccupazione o lavoro precario, mancanza di servizi socio-assistenziali in grado di intercettare la fragilità, la dispersione scolastica, l’assenza di reti familiari, la povertà, un passato di migrazione, etc…

Nel caso del dolore cronico, una condizione di sofferenza e malattia che raccoglie tutti i quadri di neuropatie, reumatologie, patologie degli apparati muscolo-scheletrici, fibromialgia, ecc… abbiamo l’esempio di persone abbandonate, o peggio dimenticate, dai servizi socio-assistenziali, escluse da tutele e diritti. Persone che mettono a dura prova i legami di coppia, per il carico assistenziale e esistenziale che rappresentano; che sollecitano i medici di medicina generale con continue richieste di       i nformazioni, delucidazioni, farmaci risolutori.

Insomma, la nostra non è una società per fragili. Se sei malato, devi esserlo oltre una certa soglia, tendente al grave, e possibilmente visibile, un disagio concreto, con segni e comportamenti che compromettano l’autonomia, che ti dichiarino disabile a tutti gli effetti.

Vediamo bene come un certo destino accomuna il mio ambito di lavoro, la salute mentale (invisibile per eccellenza, almeno per la gran parte delle depressioni e dei disturbi d’ansia) e le patologie da dolore cronico. La “sfiga” della fibromialgia è che non si vede, che apparentemente sono tutte donne normali, grandi lavoratrici e persone generose, che da presenze energiche e colonne della famiglia sono diventate “depresse”, “psicosomatiche”.

Non sarà un caso che i pazienti fibromialgici siano prevalentemente donne, un universo che ancora nel 2021 culturalmente è più immediato stigmatizzare come isteriche, malate immaginarie, ipocondriache, deboli (il sesso debole).

Il gruppo di AutoMutuo Aiuto per il dolore cronico a Torino l’abbiamo inaugurato all’inizio del 2019. La sede, una stanza accessibile in carrozzina, con un tavolo e diverse sedie, ci è data (in formula di comodato d’uso in condivisione con altri gruppi AMA) dal Comune di Torino al secondo piano di un edificio ottocentesco, “I poveri vecchi”, che ha tutta una storia di cura e custodia. Cosa facciamo in questo gruppo? Facciamo comunità, che è altro dall’essere gruppo, dall’essere minoranza, dalla tecnica che dirige un gruppo di terapia.

Fare comunità è tante cose. È accogliere. Sempre e chiunque. È includere, nel segno della grande tradizione dei preti sociali piemontesi, come per il Gruppo Abele di Don Ciotti.

Per noi “gruppaioli” (l’ho inventato adesso, suona bene) l’importante è incontrarsi, dialogare, confrontarsi, raccontarsi. “Accogliere sempre” è più che un servizio, è un presidio. Il gruppo AMA non ha una fine temporale, salvo che si resti in due persone. È aperto anche a luglio-agosto, con la solita cadenza quindicinale, quando i corsi, le visite mediche, le terapie sono assenti.

Accogliamo la diversità, perché ogni persona porta in sé un mondo da scoprire. Accogliamo e proteggiamo, impariamo a dialogare, a rispettare i turni di parola, gli spazi di espressione. Vige la regola che “ciascuno riceve in base a quanto dà”. Tutti siamo “esperti per esperienza”, ricchi di vita vissuta, sapienti ingenui.

Nel piccolo gruppo, in cui non si supera la dozzina di presenze, c’è il tempo della parola, del gesto, del silenzio, c’è l’apprendere e il condividere, la risata e il pianto, il conoscere.

Si fa un cammino assieme, un pezzo di strada, da pazienti si ritorna persone, a volte da conoscenti ad amici. Crescono legami rispettosi, in cui riconoscere un proprio modo di essere, di affrontare la malattia e  la vita. In genere si arriva al gruppo pieni di emozioni rabbiose, delusi, tristi, depressi. Si impara che non si è soli, che altri prima di noi hanno provato gli stessi sentimenti di invisibilità, non ascolto, impotenza. Si impara ad accettarsi, a volersi bene, a navigare tra gli alti e bassi della convivenza con la malattia. Si scambiano idee, a volte biscotti di autoproduzione. Si festeggia, si cura.

Come ebbe a dire Franco Basaglia, “cerchiamo di incontrare la persona che i sintomi ci nascondono”. Ci vuole tempo, ma noi ci siamo.

Alessio Sandalo

Facilitatore gruppi AMA Torino e Ivrea